Cos’è il Coming out?
Il Termine “Coming out” è ormai usato e abusato in ogni contesto, ma per una persona queer, cosa significa? Dire a tutt3 che gli piace la pizza all’ananas? Che ha usato la verza nella parmigiana al forno?
Pare piuttosto evidente che per una persona non eterosessuale o che non si identifica nel genere assegnato alla nascita, non è come confessare di aver usato le penne lisce per l’amatriciana.
Della definizione ho già parlato brevemente in questo articolo per la giornata del Coming Out Day, ma faccio un breve ripassino:

Coming out (of the closet): uscire dall’armadio, una espressione metaforica che parla della decisione di uscire dal proprio spazio sicuro e segreto per rivelare al mondo qualcosa di importante sulla propria persona, sull’identità di genere e/o sul proprio orientamento affettivo-sessuale.
Diverso da outing, termine con cui si identifica un’azione intrusiva da parte di terze persone che manca completamente di rispetto, perché mi fa uscire forzosamente dal mio “armadio”, senza il mio consenso.
Esempio: non è risaputo che io sia omosessuale, Gino dice a mia madre che sono gay. Questo è fare outing. E non si fa!
Mi sono state fatte un paio di domande interessanti al riguardo del Coming Out nei giorni scorsi, eccole qua:
1. Daresti la tua testimonianza di coming out sul lavoro? Potrebbe essere utile a tutt3
Certo! Parto però con una premessa che possa aiutare nel racconto: spesso si parla di coming out come un’azione al singolare, tuttavia, da settembre 2022, avrò fatto almeno TRENTA coming out. Tenuto conto che uno di questi l’ho veicolato tramite i social sarebbero stati infinitamente di più! Fai il conto di parenti, amici, collegh3…
Come ho strutturato il mio coming out a lavoro?
Intanto, per gradi: come il lancio di un sassolino in un lago che genera piccole onde concentriche via via sempre più grandi.
Prima mi sono confidato con una amica e collega, che lavorava in un altro ufficio. Sapevo che era una persona alleata e avevo bisogno di condividere con qualcun* che condividesse il mio stesso mestiere e comprendesse le difficoltà operative che riscontravo ogni giorno. Non molto tempo dopo ho preso coraggio e ne ho parlato in successione con due collegh3 del mio stesso gruppo, con cui mi sentivo “safe” e speravo di trovare un appoggio nei momenti di sconforto. In entrambi i casi è stato comunque un salto nel vuoto perché non avevo idea di come avrebbero reagito davvero, ma mi hanno piacevolmente stupito.
Ho condiviso il mio percorso anche con l3 mie superiori (perché ovviamente nel momento in cui decido di fare coming out, c’è un cambio di gestione! Ah, che fortunello che sono) e nonostante tutti i miei timori mi è stata data, invece, vicinanza e supporto. Infine, agli inizi del 2023, mi sono “scoperto” con il resto del gruppo di collegh3, prima di espormi pubblicamente sui social.
In tutti i casi ho parlato con le persone singolarmente o al massimo in coppia, preferibilmente di persona o se proprio non era possibile, quantomeno a voce. I principi cardine che mi hanno guidato sono stati:
- naturalezza → è qualcosa di naturale, non bisogna trattarlo diversamente
- spiegare domandando, senza fare monologhi → “sai che cos’è il percorso di affermazione di genere?”
- usare parole semplici → c’è sempre tempo per approfondire, evita termini complicati o poco conosciuti
- non avere pregiudizi! → è ok non aspettarsi nulla, ma non per questo farsi dei preconcetti “al contrario”
- Essere disponibile → solo il 5% della popolazione conosce una persona trans* e molte di queste non personalmente. Dare la propria disponibilità a spiegare (nei limiti della privacy, ovviamente!) può essere un buon momento di diffusione della conoscenza
- Essere trasparente → specificare come si vuole essere chiamat3, con quali pronomi, cosa ci crea disagio.
Mi piacerebbe prendermi i crediti completamente di questa strategia -perché di strategia si tratta quando si pianifica un coming out – ma la verità è che sono stato aiutato dalla psicoterapeuta che mi stava seguendo nel mio percorso di scoperta della mia identità, che mi ha dato ottimi consigli sull’approccio: la dottoressa Paola Biondi. I punti che ha molto stressato sono quelli al riguardo della naturalezza e di non avere pregiudizi, che fanno tutta la differenza.
2. Come stai mentalmente adesso?

Come dicevo in un reel di Instagram, rispetto a prima dell’aver compreso di essere una persona trans, sto MOLTO meglio. Ho capito cosa non mi andava di me, e perché fossi così *in lotta* con il mio corpo. Sono più sicuro, mi piaccio di più quando mi guardo in volto, cammino a testa alta, la mia postura è molto diversa.
Quindi sto bene?
Mentirei se rispondessi di sì. Mentirei, perché c’è una cattiva compagna che è con me tutti i giorni e ogni ora, che è la “disforia di genere”. Un termine che è purtroppo sia utile ma anche patologizzante. Sto divagando però: andiamo per gradi.
Definizione del DSM¹:
Disforia di genere: disagio o angoscia correlato a un’incongruenza tra l’identità di genere di un individuo e il sesso assegnato alla nascita.
Come ne parla l’istituto superiore di sanità? “La disforia di genere si manifesta con malessere e disagio profondo nei confronti del proprio corpo, sentito come estraneo; lo stesso senso di estraneità viene provato per i comportamenti e gli atteggiamenti che sono tipici del proprio sesso, all’interno del quale la persona non si riconosce.”
Non voglio entrare nel merito *adesso* di come tutte le references sanitarie italiane siano estremamente stereotipate, binarie e incasellate (ma ci torno, oh se ci torno…), ti parlo invece della disforia nei confronti del mio corpo.
Al momento il mio è un corpo “non conforme”, e ovviamente più mi cresce la barba e più non vorrei avere il seno qui, esattamente dove si trova ogni dannato secondo. Ci sono giorni in cui mi servirebbe una di quelle stanze in cui puoi spaccare tutto, presente? Per sfogare la frustrazione di dover attendere la sentenza di un tribunale per poter operare su di me.

Domanda bonus del joryteller:
sai che serve una sentenza del tribunale per operare sul mio corpo, se non è chirurgia estetica?
Ti lascio con questo interrogativo e se durante la lettura ti sono sorti dubbi, domande, voglia di leggere degli approfondimenti puoi segnalarmeli nei commenti qua sotto, alla mail jorytelling@gmail.com, al caro vecchio instagram @jorytelling, altrimenti ho aperto un canale di comunicazione anonimo: https://ngl.link/jorytelling2
A presto!
¹Il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), nato nel 1952 ma diffusosi a partire dalla terza edizione nel 1980 (DSM-III), è un progetto ambizioso con il difficile obiettivo di applicare alla psichiatria una metodologia di classificazione il più possibile condivisa per esigenze epidemiologiche, statistiche e cliniche, integrando e uniformando a livello globale quelle conoscenze che prima erano in balia di frammentarie e multiformi scuole di pensiero […]
Fonte: https://www.rivistadipsichiatria.it/archivio/1461/articoli/16137/